Alberto di Giorgio Martini

RACCONTI SENZA INIZIO

 

INIZIO DEI RACCONTI SENZA INIZIO


 

Racconto 3

 

Susy Fiore

TUTTE LE FAMIGLIE SANE SI SOMIGLIANO
MA OGNI FAMIGLIA DEGENERATA LO E’ A MODO SUO

 

Tutto era cominciato con la tris-tris-trisavola, Pasifae, detta volgarmente Passy. Quando si era congiunta carnalmente con il nero e focoso toro,  aveva  concepito il mostro chiamato Minotauro, detto da tutti Mino (il quale era stato poi  ricoverato in una confortevole clinica con molte stanze chiamata Lab.Irinth.Institute). Purtroppo, però,  l’esito più nefasto dell’immondo sponsale  era stato per la nostra Passy essersi infettata di un morbo atroce che era  altamente contagioso ed anche ereditario, ragion per cui ogni suo discendente l’avrebbe contratto. Alcuni l’avrebbero ereditato in forma latente,  (quindi non avrebbero manifestato i sintomi), ma purtroppo altri avrebbero contratto la malattia nella sua forma più devastante. La figlia di Passy, Federa, aveva contratto la terribile infezione, che portava anche ad una strana deviazione del comportamento riproduttivo orientandolo verso l’incesto. Così, divenuta adulta, Federa si innamorò morbosamente del marito di sua sorella Arianna, un vedovo benestante con un figlio adolescente. Il ricco signore  non esitò a lasciare su di un’isola deserta la povera  Arianna, anche perché quest’ultima aveva già iniziato a mostrare  i segni del morbo sotto forma di allucinazioni e deliri, e sposò la propria cognata Federa. A tutto ciò si aggiunse, dopo qualche anno,  la  morbosa passione che Federa concepì nei confronti del figlio giovanetto del proprio marito, il tenero Pippolito, con il quale concepì una bimba, Tamora  (che però abbandonò, affidandola a un guardiano di porci) e due bimbi, Alfeo  e Temelo. In seguito Pippolito, dilaniato dai rimorsi, si uccise dopo aver accusato la matrigna di averlo sedotto. La piccola Tamora, invece, divenuta giovinetta incontrò, senza sapere nulla del legame  di sangue che li univa, il proprio fratello Alfeo e lo sposò, ignara anche di essere affetta dal terribile morbo dell’incesto, come d’altronde malati  erano anche il suo sposo-fratello Alfeo e  suo cognato-fratello Temelo. Il  matrimonio inconsapevolmente incestuoso di Tamora ed Alfeo  fu “allietato” dalla nascita di due rampolli, entrambi affetti in maniera asintomatica dalla orribile tara. Poco tempo dopo Tamora, come era prevedibile, divenne l’amante di Temelo, e (neanche a dirlo) concepì due bambini, anch’essi segnati dalla nefasta malattia ereditaria

Il legittimo marito Alfeo (che ignorava di essere anche fratello della propria fedifraga consorte) ben presto si avvide della turpitudine che si consumava nella propria  casa, e preso da orrenda collera,  concepì un infame disegno.  Invitò il fratello rivale ad un banchetto e imbandì in onore di Temelo.... le tenere carni dei suoi figlioletti. 
Gli dei, inorriditi, maledirono i discendenti di Passy e li condannarono a       perpetuare  nei secoli delitti le loro perversioni e ad ammalarsi in eterno del terribile male.  E così fu.
Dopo cotanti precedenti e siffatti antenati, ai nostri giorni la maledizione divina perseguitava ancora i discendenti di quell’ oscena stirpe, che erano fatalmente attratti dai propri consanguinei in modo tale che l’ereditarietà della loro malattia diventava sempre più perniciosa, e la perversione  diventava quasi inevitabile.
Alcuni tris-tris-trisnipoti di Passy vivevano in Scozia, e appartenevano alla famiglia Drummond. Gli ultimi due adulti della stirpe, due sessantenni di nome  Ted e Janet, non sapevano di essere fratello e sorella, poiché Ted era stato concepito in provetta dal seme di un ignoto donatore, che era anche il padre di Janet. Essi vivevano con i loro figli, con numerosi cugini,  e con la moglie del figlio maggiore. Quest’ultima, che si chiamava  Pat, era in realtà la figlia che Ted e Janet avevano abbandonato quando, i primi tempi della loro unione, erano troppo poveri per provvedere all’inerme creatura.  Pat, trascinata dall’inesorabile destino della sua stirpe, aveva sposato il maggiore dei loro figli legittimi, cioè il proprio fratello.                                                                                               In tutti loro l’ereditarietà aveva conseguito il proprio esito funesto.      Turbe psichiche, tratti asociali, suicidi, tendenze criminali, alcoolismo  e fortissima propensione all’uso di sostanze allucinogene erano tratti comunissimi in quasi tutti i Drummond.  L’unica persona che sembrava essersi salvata da questa dannazione perpetua era Miss Ginevra, nata da un matrimonio contrastato di un giovane Drummond con una cameriera; per sua fortuna ella aveva ereditato dalla madre una salute perfetta ed una altrettanto adamantina dirittura morale, e pur avendo lo stesso cognome dei Drummond non ne condivideva l’atroce destino. Anzi, con il passare degli anni si rendeva conto di troppe cose, molte altre ne intuiva, altre ancora ne immaginava.  

Aveva trovato in una soffitta alcuni bauli colmi di documenti polverosi e ingialliti, e man mano che li leggeva si sentiva pervadere da uno sgomento crescente.
Ciò che Ginevra vedeva confermava  i suoi più atroci sospetti: troppe ombre strisciavano nella notte, troppe erano le tracce di misfatti inenarrabili, troppe sparizioni inspiegabili e morti sospette, in quell’antica casa abitata da loschi individui.
Viveva con loro, ma non era una di loro. Li osservava.
A volte i loro occhi  incontravano  il suo sguardo limpido e si abbassavano colpevolmente.
A poco a poco  Ginevra ricostruì episodi del passato che non erano mai stati chiariti e comprese una indicibile verità: tutti i Drummond avevano una colpa nel proprio passato. Non c’era una sola anima innocente, in quella casa. Non c’era redenzione.                                                                   Ginevra si incupiva. L’unica sua consolazione era, nelle notti limpide, guardare il cielo dal telescopio, studiare le stelle, perdersi nel loro fulgore.
Ma il nero alone di colpa ormai ottenebrava anche la sua anima.        Aveva raggiunto la soglia della maturità, quando un’ultima folgore si abbatté sulla sua vita: scoprì di avere il morbo di Parkinson. Pensò che fosse un segno. Se lei avesse dovuto lasciare quella casa per affrontare lunghe cure, chi mai avrebbe vigilato sugli istinti perversi dei Drummond? Chi avrebbe impedito alla nera onda del Male di dilagare nel mondo?
La cura per la sua patologia erano le compresse chiamate Sirio, e con amara ironia Ginevra notò che esse avevano il nome di una stella. Ora i rimedi, nella sua vita, erano due  ed avevano lo stesso nome. Era un nome luminoso, ma.....come fare per fermare l’Ombra che si stendeva sulla casa?

L’animo di Ginevra era turbato. Lentamente nella sua mente prese forma un piano lucidamente folle, gelidamente impietoso. Doveva spegnere per sempre quella stirpe dannata. Solo lei sapeva la verità e aveva il dovere di fare....cosa? cosa? Giustizia? Vendetta? No, niente di tutto questo. Doveva ripulire la terra da tanta sozzura, qualunque fosse il giudizio che la sua stessa morale dava di tale gesto. Era necessario spazzare via i resti di un’empietà che era troppo antica perché potesse essere giudicata con il metro della nostra etica contemporanea.

Così pensava, e così decise di fare.
Le compresse dal nome stellare avrebbero compiuto l’opera. Una sera, prima di cena, di nascosto Ginevra sciolse tutte le sue compresse di Sirio nella birra chiara che i Drummond erano soliti trincare avidamente. Così avvelenata, la birra avrebbe annientato definitivamente la progenie di Pasifae e l’antica maledizione.
Ginevra, freddamente, aveva pensato a tutto. Le domestiche Giannina ed Elisa, timorose di punizioni,  non avrebbero osato toccare la bevanda dei padroni. L’unico ospite presente in casa, il cavalier Mazzoli, beveva solo birra scura al malto e non avrebbe corso alcun rischio.
La notte fu insolitamente silenziosa.
Al mattino, quando la polizia arrivò, una storia lunga secoli e secoli di perdizione era finita per sempre.                                                         Un ispettore attento e capace, arrivato da Glasgow, subodorò il mistero del luogo e dopo alcune indagini infruttuose decise di affidarsi al proprio intuito. Stabilì perciò di giocare una carta che quasi sempre si dimostrava vincente, quella che lui chiamava  “la carta della Sibilla”:  interrogare i sospettati ad uno ad uno,  e sorprenderli con una frase  ermetica e allusiva.
E così come si può capire cominciarono ad entrare uno alla volta, come in uno di quei romanzi di Agatha Christie che abbiamo letto da giovani.   L’ispettore aveva detto così e loro si erano rassegnati a ubbidirgli.

 

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